BRESCELLO Stefano Rotta Gira e rigira in golena c’è sempre qualcuno, secolo dopo secolo, a dir con le mani che siamo fatti di acqua e di terra, che il tramonto è sangue e il mondo amore. In golena, in spiaggia, in barca, sul fiume che nasconde, accoglie e non si ferma mai. C’è stato Antonio Ligabue, da queste parti, adesso il Re del Po, Alberto Manotti, con la sua cattedrale di diecimila pali di legno, portati in corrente dal Grande Fiume, raccolti e sapientemente assestati intorno a un salice, come una gigantesca casa per chi viene, chi resta e chi va. Ligabue con gli olii e le statuette, Manotti con i legni: la si capirà alla morte – è certo – la sua arte. La morte di chi non muore mai. Per ora lui lavora, tutto il giorno tutti i giorni, per un sogno grande come la fantasia. E parla, parla, parla. Parla mentre lavora, con discorsi torrentizi, senza mai smettere. Di picchiar chiodi e accarezzare legname, né di raccontare storie e dir la sua sul mondo, in cui s’è ritagliato un angolino poco più in là del ponte di Brescello. «Chi non fa niente è già pronto per il cimitero», attacca così: al fiume la contemplazione non è un valore, semmai un’eventualità segreta. Da 41 anni Manotti si muove nelle zone fluviali inaccessibili, porta a casa legna, intrisa d’acqua, e la lascia seccare. «Se un pezzo di pianta è stato in acqua per anni e anni, venendo da chissà dove, non si spezza più», trancia i dubbi, rimanendo appeso a cinque metri da terra, sul pennone della cattedrale. C’è una bandiera rossa, con scritto Re del Po. Per arrivarci sono tre piani di scale, la maestria dei colpi, delle spinte, dei pesi, la tenuta dei materiali, in un colosso precario e sperluscento, con terrazzini e salotti vista fiume, e foglie vive di salice fra le passerelle aeree. Dentro, anche una nave, tutta di legni trovati dispersi (lui dice: «mi chiamano loro»), che sta ultimando proprio in questi tempi. Il salice che regge tutto è giovane, «l’ho piantato io stesso dieci anni fa, mettendo la piantina nella sabbia»: albero venerato e adoperato per le sue proprietà lenitive nell’antichità, il salice (non piangente) è uno degli alberi più padani, forse più ancora del pioppo bianco, che esistano. Basta pensare al villaggio lì dietro, Pieve Saliceto. Le mani sono pale, gibbose e potenti, la pelle dei polpastrelli consumata e soffice. Ma capaci di prendere il taccuino, e vergare con calligrafia elementare: «Prima volta il Re sopra la Bandiera». Ci è andato, in piedi sull’ultimo dei legni, di fatto in cielo, per l’obbiettivo di Marco Gualazzini, lui pure sospeso in aria su un albero. Non manca nulla, nel giardino incantato sullo spiaggione: una motocicletta in legno, una gioco di corde e secchielli che vanno a fiume, balocchi per bambini, un polipo di legno (disegnato dal fiume!), una capanna fresca con i chiodi battuti a mano centinaia d’anni fa, e una ghiacciaia invisibile per il vino fresco, sottoterra. Il nipotino Lorenzo viene qui a fare i compiti delle vacanze, il nonno la sera lo porta in barca, remando dove lui sa per risalire la corrente. Qualche volta s’incanala in maniera strana, il bimbo suggerisce, il vecchio per evitare figure (e non perdere quell’immagine mezza burlesca e mezza ieratica) si butta in acqua e traina la barca a forza di braccia, in Po. «Quando c’è magra ci comando io, quando c’è piena ci comanda lui». Riassume così l’alternarsi di secco e «ciucca» del fiume, che se dovesse passare di qui, e ci passerà prima o poi, assicura lui, «terrà, il tutto, sono il Re del Po». Offre da bere acqua fresca agli sconosciuti che passano con un bicchiere mai lavato, ma generoso, e fa gli onori di casa al forestiero. «Questo è l’osservatorio astrale», precisa, «come si vedono le stelle qui…». Dà un senso di equilibrio e gravitazione, di compostezza e genio, di solidità al corpo e tenerezza sull’anima; fiducia epidermica di uno strambo teorema: comunque ti sdrai, dovunque tu metta gambe e braccia, quassù sei comodo e coccolato. Fuori dal tempo. Sospeso. In aria e nel mondo. «Ti toglie i brutti pensieri, eh?», ansima lui tutto contento che ci sia qualcuno ad allentarsi sulle sedie in legno, quattro metri sull’acqua che corre poco più avanti. «E’ l’ottava meraviglia del mondo, vè…» In mare i velisti chiamano «ferri da stiro» gli yacht. Lui chiama «parassita», senza cattiveria, chi va col motoscafo. «Sono tutti scoppiati. Da bambini remavano. Adesso tutti col sedere sul cuscino e la levetta in mano. Sono rimasto solo io a remare». Legname levigato dal tempo e dai chilometri in viaggio, partito forse da vallate alpine mezze italiane e mezze francesi, venuto fin qui a tenere insieme un sogno. Forme matte, scarti improvvisi, contrafforti e slanci in aria, tutto con pochi chiodi, belli grossi e al posto giusto. «Non ce n’è uno uguale, di legno. Se li trovi mi disintegro». Alza le mani, levigate come i suoi corrimani, e dice, con tono sciamanico: «Se non tornate, vi faccio un quadrato intorno sulla sabbia. La parola prima di tutto, fra uomini». Lì avanti passano i tir sopra il Po, verso la Lombardia. Ricordano che siamo ancora in piena epoca del gasolio.